L’ultimo film del poeta-scrittore-commediografo-artista che fu protagonista della scena francese per cinquant’anni. Uno strano oggetto di surrealismo decorativo e un po’ salottiero che ancora oggi emana un suo potere incantatorio. Film di sfrenato narcisismo, che però sa danzare lieve intorno alla morte e all’immortalità. Voto 8.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=hy3AdaUkijQ&w=420&h=315]
Il testamento di Orfeo, di Jean Cocteau. Con Jean Cocteau, Maria Casarès, Jean Marais, Pablo Picasso, Lucia Bosè, Yul Brinner, Jean-Pierre Léaud. Francia 1959. Visto all’Oberdan-Cineteca di Milano. Il film è reperibile in Dvd.
Il bello del film è provare a individuare tutte le comparsate eccellenti che ci sono, senza però aver letto prima i credits. Questo ultimo e davvero testamentario film di Jean Cocteau (del 1959: lui morirà di lì a quattro anni) è una celebrazione ante-mortem dell’artista-regista-commediografo e soprattutto poeta francese, soprattutto, è un’autocelebrazione clamorosa cui gli amici non si sono voluti o non si son (diplomaticamente) potuti sottrarre. La lista dei cameo in Il testamento di Orfeo è impressionante. Compaiono, sotto più o meno mentite spoglie e maschere, riconoscibili o irriconoscibili, Jean Marais (abbastanza facile da individuare), il trio Pablo Picasso, Lucia Bosè e Luis Dominguin (facile), Yul Brinner (facilissimo: Brinner è incredibilmente anche il produttore del film), Charles Aznavour (difficile), Jean Pierre Léaud (difficile), Françoise Sagan (difficilissimo). E poi Maria Casarès, Daniel Gelin, Roger Vadim, Annette Stroysberg, Serge Lifar, Claudine Auger, qualcuno dice perfino Brigitte Bardot ma io non me ne sono accorto proprio. Tutti alla corte di Cocteau a dare il proprio contributo all’edificazione in vita del suo monumento. Il narcisismo percorre e a volte avvelena tutta l’opera di Cocteau, e nel suo cinema si fa sentire in modo anche più sfacciato. In questo e negli altri suoi tre film che ho appena visto all’Oberdan-Cineteca di Milano nel ciclo a lui dedicato (oltre a Il testamento di Orfeo, sono stati proiettati Le sang d’un poète, purtroppo in una copia al limite della definitiva dissoluzione, La bella e la bestia e L’aquila a due teste) il protagonismo di Cocteau deborda fino alla maniacalità ossessiva. Cinema come proiezione, letteralmente, dell’Ego del suo autore. In Il testamento di Orfeo, film di surrealismo decorativo ed esteriore un po’ da salotto, l’egolatria raggiunge l’apice e, forse, il punto di non ritorno. Qui Jean Cocteau cita continuamente se stesso, esibisce le proprie opere (i quadri e i mosaici nella villa, la grande tela con Giuditta e Oloferne, il disegno animato che apre e chiude il film), richiama addirittura in vita i personaggi di un suo film precedente, Orfeo (Cégeste, l’uomo che porta il fiore, viene da lì), in un’operazione autoreferenziale dove tutto conduce e riconduce ossessivamente a lui. Non bastasse, riserva per sè addirittura la parte del protagonista. A 7o anni, tanti ne aveva al momento del tournage, Cocteau civetta a fare la star e si prende in spalla come interprete l’intero film. Va detto che se la cava onorevolmente senza cadere nel patetico e, se non proprio giovanile, non appare nemmeno decrepito, anzi è agile, guizzante e ben conservato, saltabecca come un grillino nervoso tra scogliere, vicoli impervi, scale e scalinatelle mediterranee, cave e lande scoscese. Tutto il film è un girovagare difatti, un andare e venire, un salire e sprofondare, un viaggio, una traversata, un passaggio tra più spazi e tempi, e il nostro è sempre in scena. Infaticabile. Però il film, nonostante questa nevrosi cinetica, questo vitalistico sbattersi, è marchiato dall’incombere della morte. Il Poeta (con la maiuscola: la minuscola non è cocteauiana) protagonista sente la voragine approssimarsi e come Orfeo si appresta alla discesa agli inferi, al mondo sottostante. Cocteau monta una surrealistica, ma neanche troppo, storia di un uomo, il Poeta appunto, che, stanco di andare su e giù per il tempo (ha la possibilità di passare da un’epoca all’altra essendosi inserito in chissà quale fenditura o piega dello spazio-tempo), riesce a tornare ai giorni nostri. Che sono poi i giorni di allora, di quando il film fu girato, fine anni Cinquanta. Riapprodato nell’era moderna incomincia la sua nuova avventura umana tra strani e incongrui incontri, ragazzi dalla testa equina, figure arrivate dalla mitologia e dalla tragedia classiche (Atena, Edipo, Orfeo), accampamenti gitani. Finchè incappa in un processo che forse è un sogno ma che di sicuro è molto Kafka fino al plagio, dove è accusato di non sappiamo che cosa (oddio, Cocteau ce lo spiega anche, ma con parole così alate che stentiamo ad afferrare) e infine condannato “alla pena di vivere”. Invece, poco dopo incappa in un cattivo incontro con la Dea Atena che lo infilza e lui ci resta secco. Ma siccome “un poeta non muore mai” eccolo resuscitare a nuova vita. Perché, se in Il testamento di Orfeo si parla molto, moltissimo di morte (tanto per non lasciare dubbi Cocteau passa perfino davanti alla cappella-sarcofago che pochi anni prima lui stesso aveva decorato a Villefranche-sur-mère), altrettanto si parla di resurrezione. Senza il minimo pudore Cocteau muore e poi risorge, in un parallelismo cristologico perfino imbarazzante, e allora capiamo. Capiamo che il film è per il suo autore un gigantesco esorcismo della morte e l’edificazione meticolosa della propria immortalità d’artista.
In fondo, però, la domanda vera è: ma tanto debordante narcisismo riesce a produrre davvero un bel film? Il testamento di Orfeo abbonda di belle immagini e anche folgoranti (quelle figure classiche ricreate in una specie di cava di marmo; l’uomo-cavallo; le palpebre chiuse di Edipo e dello stesso Poeta che, ridipinte, diventano nuovi occhi; le statue che prendono vita e poi la riperdono, un’ossessione cocteauiana che ritroviamo in tutti i film). Il tutto entrando ed uscendo tra realtà, subrealtà, surrealtà, non tanto e non solo ricordando Bréton (che Cocteau non amava e da cui Cocteau non era amato) ma anche, con forse maggiore pertinenza, il nonsense lieve di Alice oltre lo specchio. Miracolosamente il film riesce a tenersi lontano dal trombonismo, che Cocteau bordeggia pericolosamente un’infinità di volte, soprattutto con dialoghi che qualche volta sono poesia e qualche volta, spesso, cattiva poesia, senza però caderci dentro. Tutto il film, ma tutto Cocteau, ha il dono della leggerezza e della grazia, la superficialità e l’esteriorità del suo autore sono un limite, ma lo salvano anche dall’essere greve. Francese sì, profondamente francese, però mai pompier. Un miracolo, davvero. Cocteau è ambiguo e doppio (il tema del doppio domina ossessivamente la sua opera), dunque difficile da afferrare e classificare. Esteticamente è insieme rivoluzionario – attinge a piene mani dalle avanguardie storiche pur senza riconoscervisi fino in fondo – e profondamente, intimamente reazionario: quel suo gusto per l’araldica, le figure reali e imperiali, i segni militari e del potere. Rivendica come Poeta la sua unicità e il suo diritto di appartarsi nell’ombra, però è uomo mondano, scaltro animale da salotto che per cinquant’anni ha saputo coltivare una rete di relazioni sociali eccellenti che ha pochi paragoni nel Novecento. Certo, a vedere oggi Il testamento di Orfeo si resta allibiti, e inteneriti anche, nel vedere un uomo che, dovendo declinare al mondo la propria identità e le proprie generalità, si dichiara orgogliosamente Poeta. Oggi non sarebbe possibile e un uomo simile verrebbe sbeffeggiato.
↧
IL TESTAMENTO DI ORFEO di Jean Cocteau (1959): recensione
↧